CHOSCO TURCO

Trascorrevo le notti su quel pezzo di strada negli anni in cui la solitudine era ancora un piacere. Il mio pensiero era la luna, splendente, rara, come non l’ho più vista dopo; balzavo, volavo con essa; candida quand’era in alto; o verdastra, rossastra, quando tramontava sul piano. 

Mi pareva allora di avere sotto di me gli spazi eterei, un baratro vorticoso che mi trascinava seco di là dall’orizzonte con quella faccia rilucente. Era un farnetico lunare che mi ritorna come in sogno.

Giungo adesso alla villa dove immaginai le mie Lettere di una novizia. Vi penetro con la scusa di vedere un mio vecchio concittadino. Sparito il bosco che saliva sulla pendice; invece dei chioschetti cinesi e turcheschi tra i pini, un pollaio nel prato calvo. Nel grazioso giardino a terrazza della novizia crescono alla rinfusa i suoi fiori e le erbacce; strappate le ringhiere settecentesche; sradicato il ciliegio che si era abbarbicato tra pietra e pietra al muro di sostegno della terrazza, e riversava dentro le fronde e i fiori. 

< Quando l’idea del fare mi pungeva di più, uscivo nel giardino e mi affacciavo alla ringhiera. Davanti a me avevo una piccola valle, poco profonda, che guardata da quella ringhiera pareva una conca interamente chiusa da una cerchia di colli.
La fascia del terreno sotto il giardino era quasi piana, a vigneto, con qualche albero di fico; poi veniva una siepe di robinie e noccioli; dietro di essa, il terreno cominciava a scendere in un declivio molto dolce, tanto che il fondo della conca, sebbene abbastanza lontano, era più basso solo di una ventina di metri.
Qui attaccava il pendio, invece ripido, dell’altura di fronte, più alta delle altre, selvatica e macchiata di rovi.

Altro non c’era, o non si vedeva di lì, tolto qualche cespuglio, qualche macigno e un viottolo che, partendo sotto la casa, si diramava poi da tutte le parti.
Sapevo che la conca non era chiusa, perché defluiva a sinistra in un varco tra i colli, acquitrinoso e coperto di canne, che sboccava nella pianura; ma il varco era nascosto da uno sperone,
e dal mio osservatorio vedevo soltanto il primo inizio del canneto.

Guardavo attentamente, esploravo ogni aspetto di quel piccolo anfiteatro in cui avrei dovuto entrare.
Ma non mi decidevo a staccarmi dalla ringhiera per compiere il breve giro verso la gradinata che, al termine della terrazza, scendeva sotto e si prolungava nel viottolo su cui andavo su e giù soltanto con lo sguardo.
Il luogo era come una pagina che avrei dovuto riempire di parole scritte e che mi incuteva spavento.>

Guido PIovene